un racconto…

Un ringraziamento speciale alla nostra amica Chiara Guidarini per questo bellissimo racconto ispirato alle nostre indagini.

 

Oggi seguo la GHW.

Il mio nome non ha importanza. Per alcuni sono Eletta, per altri Zoe. Altri ancora mi vedono come Kore, la dea costretta a vivere sei mesi sulla terra e sei mesi nel sottosuolo, o Mina, l’amata di Dracula. A volte sparisco per mesi, a volte sono più presente che mai.

Oggi sono qui, nascosta da un velo d’ombra, con precisa richiesta di non essere né fotografata né filmata.

Li seguo. Guardo. Osservo.

Vedo, a volte, quello che a loro sfugge. Cerco di non fare rumore durante le indagini, e analizzo, come una presenza silenziosa, quello che un tempo apparteneva ai luoghi.

Ci sono momenti in cui basta tendere l’orecchio, e ascoltare. Non tutti sono in grado di farlo. Alcuni odono, ma poi dimenticano, tutti presi dalla razionalità. Altri vedono, ma non guardano.

Talvolta accade che ci sia qualcosa da udire, o da vedere. Qualcosa di invisibile all’occhio. L’essenziale, direbbe Antoine de Saint-Exupéry.

Questi pensieri mi tormentano mentre entriamo nella villa. Si tratta di una grande tenuta seicentesca, che grida con integerrima potenza la sua appartenenza a un tempo passato, che ha visto con gli occhi cupi di finestre in rovina il susseguirsi di intere generazioni.

Mi dispiace. Mi dispiace perché le pareti sono intrise del frutto di una civiltà tutt’altro che civile. I begli affreschi della Pieve in disuso sono altrettanto danneggiati, quasi per compensare un oscuro bilanciamento tra la passione dell’antico pittore e l’arroganza del moderno vandalo.

Fanno più paura i vivi che i morti.

A volte, vorrei che i fantasmi preservassero i loro luoghi. Vorrei che facessero morire di paura queste persone arroganti e presuntuose che credono di poter venire, con le loro bombolette, a impestare posti che se potessero parlare ne avrebbero tante da dire.

Ma non è nella Pieve né nelle stanze su vari piani che troveremo quello che cerchiamo, me lo sento. La villa, per quanto enorme e spaziosa, teatro forse di rocamboleschi rituali, non ospita alcunché di anomalo. Ma nelle cantine… laddove nei secoli veniva fermentato vino novello, accogliendo grida di giubilo e ubriache risate, ora si apre come un oscuro viatico verso le viscere dell’abitazione un condotto nero come la pece che pare separare il mondo dei vivi da quello dei defunti.

Il camminamento è ostruito da travi di cemento cadute chissà quanto tempo addietro. Fabio illumina con la torcia un viale buio che pare proseguire in linea retta dietro a una porta ad arco.

È perentorio l’annuncio di Beatrice: «Scendiamo»

Non mi sono nemmeno posta il problema che a qualcuno potesse non andare bene. Tutti ubbidiscono, ligi al dovere e alla missione che si sono preposti. Loro sanno dove mettere i piedi, sanno come muoversi tra quegli anfratti tenebrosi.

Laggiù il tempo pare essersi fermato. Ci sono ragnatele, e polvere, e grandi colonnati che sostengono l’intera struttura dell’immenso casolare. Restano tracce di polvere sulle tavelle del pavimento.

«Iniziamo la sessione.» Comunica Beatrice mentre i suoi compagni dispongono gli strumenti tutt’attorno. C’è un silenzio di tomba in quei meandri non vinti dal tempo, immacolati di polvere e silenzio.

«C’è qualcuno qui con noi?» chiede Michela dopo un tempo che pare infinito. La luce della telecamera di Fabio la illumina, illumina tutti noi, ma io sto nell’ombra. Io vago.

Da lontano sento la voce di Michela che chiede di parlare più forte. Quanto tempo è passato? Sono nell’ombra più cupa mentre loro lavorano. Cosa c’è accanto a me? Chi c’è accanto a me?

Mi volto di soppiatto mentre sento qualcosa sfiorarmi i capelli. Devo imparare a controllare i movimenti. Qualsiasi cosa ci fosse, non c’è più. O c’è ancora. Mi è dietro.

Mi giro lentamente, questa volta.

La temperatura scende velocemente, troppo velocemente, ma sono lontana dai GHW e forse loro non se ne sono accorti. Sento la voce di Stefano arrivare lontana, quasi come in un sogno, che annuncia il termine della sessione.

«Qui.» mormoro, ma non sono certa che mi abbiano sentito.

«Chi sei?» domando. Qualcosa mi sfiora la mano, ora. Abbasso lo sguardo. È un bambino.

Lo vedo aprire le labbra, dire qualcosa, ma non comprendo di cosa si tratti. Sento solo le lacrime salirmi agli occhi e non so come fare a cacciarle. Nonostante questo, il bimbo pare sereno.

Mi abbasso, piano, per essere alla sua altezza. Mi sorride quando i nostri sguardi si incontrano.

Di solito le presenze non mi si svelano così nitide: questo è un bel bambino di forse cinque anni, dai capelli chiari e gli occhi grigi.

Conversiamo, ma non so dire di cosa. E, quando mi giro e vedo i colleghi alle mie spalle. Si toglie le cuffie, Saverio, e il suo sguardo non lascia adito a dubbi.

«Chi è?» gli domando.

Scuote il capo.

«Ne parliamo dopo. Ha detto… di andare di sopra. Verso la Pieve.»

Ci guardiamo l’un l’altro, ma nessuno mette in discussione le parole del bambino. Mentre saliamo, capisco di averlo visto solo io. Gli altri hanno acceso i loro strumenti, fatto foto con gli infrarossi, ma non hanno visto nulla che potesse sembrare paranormale. E non hanno percepito quel gelo terrificante che sembrava arrivare fin dentro alle ossa.

Torniamo alla luce.

I giardini della villa, sebbene incolti, ci accolgono come un toccasana. Mi butto nell’erba fresca, incerta dei sentimenti che provo. Allora, arriva il custode.

E’ lo stesso uomo che ci ha aperto, e che pare uscire direttamente da un romanzo regency. Ma non aveva nulla a che fare con il fascino austero di mister Darcy, appariva più come un custode stanco ma eternamente ligio al proprio dovere.

Talmente ligio da indicarci la strada senza bisogno di parole. Senza fermarsi. Procedendo dritto senza nemmeno guardarci.

Costernati, lo seguiamo, con Beatrice che cerca di fargli qualche domanda. Stefano e Fabio si guardano scoraggiati, solo Saverio pare all’ascolto di qualcosa di udibile solo attraverso la sofisticata strumentazione che poggia sulle orecchie. L’uomo ci ignora, va dritto verso l’esterno della Pieve, laddove sorge qualcosa che di primo acchito ci era sfuggito, perché avvolto da rovi ed erbacce.

L’ingresso di un cimitero.

Cigola il cancello mentre entriamo. Beatrice chiede notizie del bambino ed è qui che l’uomo la guarda come se la vedesse per la prima volta. Alza l’indice e lo punta verso un luogo indistinto, avvolto anch’esso nel gioco di erbe e acacie, che sbucano dal terreno avvinghiando segni di un passato lontano. Statue inginocchiate e piangenti, angeli fatiscenti intrisi di dolori antichi e croci, croci distorte e decadenti incastonate alla bell’e meglio nel vecchio terreno consacrato.

Non mi accorgo che l’uomo ha abbassato gli occhi e guarda a terra, mentre gli passo accanto. Non mi accorgo di molte cose che avrei dovuto vedere. GHW posiziona gli strumenti. Ognuno di loro sa cosa deve fare. Io mi chino su una piccola lapide di marmo, e come mossa da una forza sconosciuta, apro il varco tra rovi e sterpaglia per capire a chi appartenga il tumulo. E lì, con caratteri ormai privi di decori spicca un nome latino, privo di qualsiasi altro elemento anagrafico.

“Julio – 13 iulii MDCCCL”

Allora, mi accorgo che Saverio è alle mie spalle. Interpreto il suo pensiero, che è anche il mio.

Ci guardiamo. Vorrei chiedergli cos’ha captato della mia conversazione col bambino, ma non c’è bisogno di parole perché lui ha già capito, e risponde.

«Ha detto “mamma”»

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